Layers of fear
Un famoso pittore, abbandonatosi nell'oscurità della sua tenebrosa villa vittoriana, vaga di stanza in stanza compiendo un viaggio introspettivo per gettare una luce su un passato doloroso.
Layers Of Fear è un horror psicologico prodotto da Bloober Team, sviluppatore polacco relativamente giovane al lavoro dal 2008 ma con all'attivo una mezza dozzina di giochi piuttosto limitati — tra cui un inquietante clone di Bomberman —, comparso dapprima nell'Early Access di Steam e in seguito completato e pubblicato nel febbraio del 2016.
Si tratta di un videogioco in soggettiva con scarsissima interattività ispirato al tristemente famoso Playable Teaser di Silent Hills, il gioco mai terminato di Hideo Kojima e Guillermo Del Toro su cui si è consumata la rottura tra lo storico game designer e Konami, assemblato utilizzando Unity e prendendo come spunto Gone Home (Fullbright Company, 2013) di cui è di fatto un clone.
Per coloro che non hanno riferimenti, Gone Home è uno di quei giochi definiti in modo dispregiativo come walking simulator. Di fatto, oltreché camminare si fa ben poco. Ma al contrario di esperienze totalmente passive come Dear Esther (The Chinese Room, 2012) — che di fatto risultava essere l'esempio di maggior impatto all'epoca della sua uscita — gli sviluppatori tentano un approccio più narrativo frantumando una o più storie in una serie di indizi (generalmente carte, cartoline, note, lettere ecc.) che il giocatore deve raccogliere e riordinare per poterle ricostruire. Le suggestioni sono tutte demandate all'atmosfera che nel caso di Gone Home è una casa deserta, nel caso di Layers Of Fear è una villa vittoriana in decadimento e saranno tanto più genuine quanto più realisticamente gli indizi verranno forniti.
Bloober Team, però, non ha intenzione di limitare il tutto al mystery, d'altra parte propone un gioco dell'orrore che come tale deve proporre soluzioni ambientali di maggior impatto, ma alla base si tratta della solita camminata e della solita raccolta di lettere e cartoline che raccontano la solita storia tragica a tratti enigmatica su cui è necessaria una certa dose di deduzione.
La trama, come detto, è tutta totalmente celata e il suo dispiegamento è funzione della quantità di incartamenti ritrovati, alcuni dei quali, sapientemente rimpiattati, richiederanno un buono spirito di osservazione, nonché eventuali replay. All'inizio, chi vi scrive, si sentiva scettico di fronte alla necessità di almeno tre partite per poter accedere — con molta fortuna — agli altrettanti finali (buono, cattivo, neutro), dopotutto un horror è efficace la prima volta che si vede, ma già dalla seconda in poi è molto più innocuo. Per ovviare a questo problema non di poco conto, i Bloober hanno saggiamente diviso l'esperienza di gioco in tre parti sostanziali, anche se miscibili fra loro, le quali sono accessibili con modalità non del tutto chiare negli intenti, ma sufficientemente per capire come muoversi all'interno della villa.
La componente walking, non si esaurisce nella semplice esplorazione dell'abitazione del pittore, cosa che di fatto non avviene mai. Superata la fase iniziale, per così dire di prologo/ambientazione, prende il via il viaggio (reale? introspettivo? allucinatorio?) del pittore nella sua magione, ed è tutto un aprire porte una dietro l'altra e attraversare stanze e corridoi man mano sempre più corrotti dalla crescente alterazione mentale o dalla presenza di spiriti.
Questa struttura ha due funzioni: la prima, banalmente, è narrativa; capiterà di fatto di visitare sezioni della villa che avranno un particolare significato per il pittore. La seconda, permette al meccanismo dell'horror di funzionare con le modalità classiche già ampiamente utilizzate nel cinema e nei videogiochi.
All'inizio si è citato Silent Hill, l'archetipo di quella tipologia di videogioco dell'orrore in cui l'atmosfera cupa, desolata, disperata, angosciante e malsana riveste un'importanza ben maggiore rispetto al balzo sulla sedia o alla sensazione di pericolo imminente (qualità tipiche della serie rivale Resident Evil). Layers Of Fear, anche se non privo di scene che colgono di sorpresa, è un "horror d'atmosfera". La tensione, come nei primi due Silent Hill col passaggio dalla dimensione nebbiosa, relativamente tranquilla, alla dimensione demoniaca, ben più inquietante, scaturisce da questa sorta di discesa nei meandri più orripilanti del ricordo di un passato tremendo. Il senso di colpa, vero deus ex machina di Silent Hill, tiene le fila della vicenda anche in Layers Of Fear, e abbiamo già detto molto.
Il terrore si deposita a strati, man mano che affondiamo nelle viscere della magione, come la pittura sulla miriade di dipinti che si trovano affissi alle pareti, tutti, ovviamente, assai disturbanti di per sé, ma resi ancora più impressionanti dall'utilizzo dell'engine Unity in cui Layers Of Fear si mostra davvero virtuoso. Gli ambienti si distorcono, mutano dinanzi ai nostri occhi con una naturalezza sorprendente accrescendo lo spaesamento e disorientando; i quadri si sciolgono, prendono vita, si muovono, si deformano come per comunicare al giocatore il sentimento vivo che li ha ispirati; gli oggetti fluttuano per poi cadere come i proiettili in Matrix, si liquefanno, scompaiono e riappaiono distrutti per testimoniare le presenze spettrali; le stanze si sfondano, si snodano e si allungano a dismisura o si compongono di strutture arzigogolate come uno schizzo di Escher in uno spettacolo di colori da sballo lisergico.
E parimenti, anche il sonoro arricchisce e accompagna con dovizia le trovate grafiche, superando la percezione visiva e mantenendo la tensione ora lieve, ora parossistica. Musiche lugubri, certo non mancano, ma sono i suoni a rendere reale, per quanto possa esserlo, l'esperienza del pittore nella lotta contro i suoi mostri.
Layers Of Fear si dimostra, infine, un prodotto assai ben confezionato riuscendo senza grossi cali d'ispirazione a impressionare il giocatore con trovate non originali ma efficaci. Gli si può rimproverare un certo ermetismo, che comunque non dà la sensazione di un'eccessiva autorialità, e si apprezza il tentativo di rendere il genere del walking simulator qualcosa di più complesso rispetto alle cosiddette esperienze videoludiche che di ludico, alla fine, hanno ben poco. In effetti risulta un impiego con intenti tradizionali di un linguaggio non tradizionale, che rifiuta l'idea di intrattenere il giocatore con sfide impegnative preferendo immergerlo in un mondo — un Myst (Cyan, 1993) senza macchine, si potrebbe dire — ma che non si lascia andare agli estremismi di Dear Esther o all'intimismo di Gone Home.